Cinemamente
August 5, 2016
Gabriella Giardina racconta le sue "diverse vite", da Bollywood a Hollywood
Sinteticamente, puoi descrivere il tuo percorso accademico?
La mia educazione accademica e’ maturata presso la Whistling Woods International Institute of Film, Communication & Media Arts di Bolluwood. La struttura del corso è stata estremamente interessante in quanto da un lato fornisce gli strumenti per la conoscenza e la comprensione di tutti i ruoli coinvolti in una produzione, e dall’altro mette gli studenti direttamente a contatto con le realta’ professionali dell’industria cinematografica internazionale. Adesso a Los Angeles ho aggiunto, alle mie inziali attivita’ professionali, un corso di perfezionamento. La scelta e’ stata per la scuola diretta da Michelle Danner, uno degli istruttori di recitazione di maggiore successo a Hollywood, basti pensare a quanti suoi studenti vantano Academy Awards, Emmys, Golden Globe, solo per citarne alcuni. La mia, presso questo acting studio, è un’esperienza che mi sta dando l’opportunità di accostarmi a diverse tecniche di recitazione e di fare miei degli strumenti che preparano ad affrontare professionalmente qualunque ruolo, appartenga esso a un film, teatro o televisione, che insegnano a riscoprire emozioni e trasferire il potenziale in una scena per rendere il personaggio interessante e originale. Ma Michelle Danner va oltre, essendo la filosofia della sua scuola indirizzata alla crescita umana oltre che artistica e questa credo sia la ragione del grande successo di tanti suoi allievi.
Attrice e modella, quali sono stati i lavori più importanti o che ti sono più cari?
Ogni progetto è un’esperienza importante e cara, si tratti di film, servizio fotografico o TV commercial. Sono lavori totalmente diversi nel genere ma per ciascuno l’attore ha una grande responsabilità. È stato rilevante realizzare un servizio significativo per un magazine prestigioso come Exhibit o fare parte di una pubblicità complessa, come quella per la Tubor, e ancora avere rappresentato un’azienda, come l’americana Alor del Gruppo Vink e Beri LLC (V&B), che si rivolge a 11 Paesi in tutto il globo, avendomi affidato la sua immagine manifestando poi grande soddisfazione. È stato estremamente gratificante che registi del calibro di Uzer Khan e Kalish Surendranath che mi hanno diretta si siano espressi apprezzando le abilità tecniche e l’atteggiamento professionale. Per i film il gusto cambia perché diverso è il lavoro che richiedono. Nei film il personaggio si evolve quindi c’è un grande studio da parte dell’attore ed è simolante avere l’opportunità, cosí come mi piace affermare, di “vivere diverse vite” . Sono quindi stata, per citarne alcune, moglie confusa manipolata da un regista psicotico nel ruolo principale di Veronica diretta da Kunal Madan in The final cut; la studentessa Elisabeth nel film “Yaryaan” (“Amicizia”) della T Serie Production, forse la più grande casa di produzione Indiana, girato in India e Sud Africa; e ancora protagonista in Suitcase, diretta da Mohit Chhabra (giovane regista già vincitore di premi internazionali), nel ruolo di Katie, una giovane donna che vive una vita solitaria, avendo un compagno distratto dagli amici e dall’alcool, un ruolo che ho trovato particolarmente intrigante avendo richiesto molto recitato di espressione rispetto ai dialoghi. Attualmente, a Los Angeles, sono Frida nel musical A Night at The Black Cat Cabaret di Brian Drillinger e Michelle Danner, una storia che ruota attorno ad un cabaret ambientato nella Parigi del 1943, dove società di élite ma soprattutto soldati e partigiani cercano di evadere dalla Guerra ballando e bevendo al Black Cat Cabaret, senza tuttavia poter sfuggire la seconda guerra mondiale. Tutte esperienze che hanno avuto un grande sapore e mi hanno fatto crescere professionalmente.
Cosa ti hanno lasciato queste esperienze?
L’esperienza umana con il cast, ovviamente, e quindi l’apprezzamento e la stima professionale che ne derivano, sempre molto importanti e incoraggianti per un artista. Ma è anche il vissuto stesso del personaggio che si interpreta che ti resta dentro. Non devi necessariamente approvarlo ma devi riuscire a metterti nei suoi panni, avere empatia, e in fine riuscire a trasmettere anche al pubblico la sua esperienza umana. Mi è capitato di intepretare il ruolo di una giovane madre che vede trasformare il suo amore per la figli in odio poiché questa è diventata l’oggetto di desiderio del marito che ne abusa. “… I hate her …” (“… la odio …”) esprime chiaramente nei confronti della figlia, un sentimento innaturale che non potrei mai condividere ma quella donna ha perso la sua prospettiva di vita, avendo perduto l’uomo che avrebbe dovuto essere il suo compagno di viaggio. Essere un attore significa diventare il personaggio che si interpreta e fare propria la sua storia come se la avessi davvero vissuta sulla tua pelle; questo ti fa crescere ogni volta, persino come persona, e magari fa crescere anche il pubblico che, attraverso te, a sua volta vive e medita l’esperienza.